Pasotti dipinge ritratti di cento italiani
Fare il ritratto è un'arte diversa. Il pittore autentico ha dentro e dietro di sé un lessico della pittura, un mondo di forme e figure, un'ambizione smisurata. E stende sulle tele superfici astratte o figurative, impegnate nella storia o nella cronaca dell'arte, tese nelle linee o voluttuose nelle spire, contrastate o sfumate, belle o brutte. Ma quando affronta il mondo del ritratto sa di entrare in una dimensione culturale, psicologica ed esistenziale. Come ha scritto Achille Perilli a proposito di Witkiewicz, un volto, quando viene disegnato, riesce a racchiudere tutte le tensioni che compongono la sua esistenza e tutte le tensioni che sono all'interno: quelle nascoste e anche le altre, quelle prodotte dal continuo contatto con la realtà esterna, tensioni e usure, rughe e ombre, ma anche maschera e trucco, protezioni e difese. Se tutto questo si concentra in una struttura di segni, che trova la sua vitalità dai diversi piani su cui si distende e dalle linee-forza che s'incrociano, allora, forse, si potrà realizzare quell'istante di verità totale che è l'immediata immersione del segno nell'esistenziale. È un'esigenza avvertita dalla cultura visiva contemporanea quella di far arrivare sino alla punta del pennello quell'esaltante senso di vitalità del creativo al contatto con la tensione nel suo farsi. Tensione del personaggio (della sua vita) che si traduce in tensione della pennellata di chi fa il ritratto, del tentativo, sempre riuscito quando l'artista si compenetra nel personaggio, di scaricare sul tratto di colore un contenuto in movimento (la vita), ricavandone un contenuto che è forma ma anche qualcosa di diverso. Silvio Pasotti è da sempre immerso nella realtà esistenziale che riporta sulle tele in una trasposizione retinica di forme del familiare, in un'atmosfera rarefatta ma carica di umori e di stimoli, per nulla metafisica. Il tempo gioca con i personaggi e con gli oggetti (palloni, sedie, aeroplani, piscine, cieli, donne). Pasotti ha di proposito percorso un a strada parallela ma distinta rispetto alla sperimentazione dell'avanguardia, sin dagli anni sessanta. Pasotti ha manipolato il lessico fresco e disinvolto della pittura di Hamilton, Kitaj, Hockney, Télémaque, e dunque della scuola pop-immaginifica inglese, francese e italiana più che americana, togliendone le allusioni iconiche di un realismo di cultura post-surrealisra o romantica e introducendo elementi ancora più piatti, banali e quotidiani. In lui è sempre stato difficile, ma inevitabile, cogliere una tendenza irresistibile a giocare con la realtà, anche se questa viene poi truccata e deformata, e stravolta dalla presenza di oggetti ludici e di corpi pieni di sosottile libido. Viene quasi il sospetto che Pasotti in apparenza si trovi bene e in buona salute nel mondo d'oggi, ma che poi nella realtà lo camuffi a suo modo per renderlo più accettabile e vivibile. Arrivato per logica fatalità alla ritrattistica, Pasotti ritrova nella tensione (nevrosi?) dei modelli lo stesso universo della pittura precedente; in più, legge sui visi e sui corpi i segreti di vita, che sono diversi dai suoi, ma nei quali cerca di identificarsi. Cesare Musatti ha scritto che ogni ritratto è un autoritratto. Non è proprio così. Ogni ritratto è la situazione finale di un conflitto tra il pittore, il modello e l'io del pittore. Pasotti scopre con gioia segreta nel viso dei modelli gli indizi di un gioco privato con l'esistenza e cerca di immedesimarvisi. Fare un ritratto è come possedere il modello, e il modello lo sa, e ci sta. Naturalmente questo artista ha sempre avuto una singolare capacità di analisi dei personaggi nell'aspetto esteriore, nel carattere, in una valutazione complessiva, positiva o negativa, nelle segrete ambizioni, nell'eros più intimo. Così i ritratti di Pasotti sono sempre a mezzo busto (la metà che conta) e appaiono circondati dai simboli della loro esistenza: tic, hobby, professioni, passioni. Io penso da sempre che noi andremo nell'aldilà circondati da questi simboli-balocco, e del resto gli Egizi lo sapevano già e facilitavano la cosa circondando le mummie di oggetti cari e di amuleti simbolici. Non diversamente leggiamo nei libri di Lévi-Strauss di miti e riti legati alla morte e all'aldilà. D'altronde anche a me, morto, piacerebbe sapere di avere attorno alla mia spoglia quelle cose o la loro rappresentazione – che mi hanno aiutato a vivere. Nella bara del pilota De Portago io avrei messo una bella ragazza, una bottiglia di champagne e una Ferrari GTO; in quella di Gianni Agnelli metterei i simboli impalpabili dell'effimero e del grande; in quella di Napoleone avrei messo quelle raffigurazioni che in effetti sono già nell'architettura degli Invalides, più qualche duchessa polacca o italiana. Si potrebbe dire che il mestiere principale di Pasotti sia, dopo quello di pittore, il reperimento dei simboli dei personaggi. Quando osserviamo al Rijksmuseum di Amsterdam la Ronda di notte di Rembrandt, constatiamo che questo rituale dell'ornamento del modello è in effetti una precisa richiesta del ritrattato. In epoche non sospette (niente fotografie, niente mass media) i modelli volevano i loro orpelli-balocchi-simboli. Dopo Picasso, il ritratto è passato di moda, spazzato via dall'arte astratta, dalla fotografia e dagli spietati fotoréportageso dalla televisione. Ma foto e TV ci danno solo l'aspetto brufoloso delle epidermidi e non la tensione dell'esistenza né la gioia dei balocchi-simbolo. E dunque l'obiettivo non ci restituisce una persona, bensì la sua apparenza fantomatica. Mettendosi a fare dei ritratti, Silvio Pasotti ha dunque riallacciato un filo spezzato e forse sta contribuendo a quella ritirata generale dei mass media che mi sembra inevitabile e che daterei attorno all'ultima decade del Novecento. I suoi ritratti – cento, un bel campionario di individui-tipo – sono un tentativo concreto di ritorno allo studio della personalità. I colori, teneri o mauve, lisciano le membra e si stendono negli abiti disinvolti (e casual anche quando sono executive) arrestandosi ai bordi dei gadget: orologi Porsche, teleobiettivi, automobiline, fiori, cravatte. I volti tradiscono impassibilità e incertezza. Le mani sono spesso tormentate, o ferme in una posa forzata. Questi cento italiani, quasi tutti di Milano, sono una banda bene assortita di umanità, ma da essi sprigiona una forza misteriosa di cose fatte e di cose sperate, di idee vincenti e di delusioni rimarginate. Spesso i visi si sdoppiano – Picasso docet – ma la visione simultanea non è drammatica esercitazione linguistica, bensì un'allusione al tempo che scorre. Tempus fugit. Siamo tutti delle statue di carne divorate dai sentimenti ma, più ancora, dagli avvenimenti. Le unghie degli uni e i rasoi degli altri ci graffiano e ci tormentano. Questi fantasmi-graffiti siamo noi , l'umanità riscoperta da un pittore di oggi con una geniale intuizione, Silvio Pasotti. Bruno Alfieri, 1982
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