La lavatrice è indubbiamente un pezzo della nostra storia italiana recente. La lavatrice è anni Sessanta, come la televisione (anche se questa nasce nel '54), come il motoscooter, come i Beatles, come la giovinezza dell'attuale classe dirigente. La lavatrice è stata uno dei simboli del progresso e della modernità. È inevitabile, dunque, che qualcuno la cantasse. Pasotti, in anni indubitabili per credere all'originalità, ne ha colto gli elementi di fascinazione simbolica. In una serie interamente dedicata alla Candy – prototipo dell'industria nazionale – seppe appunto negli anni Sessanta vestirla d'artista, introdurla nel più rarefatto mondo dell'immaginazione.
Le sue lavatrici non sono oggetti utili: l'unica cosa che non possono fare è lavare qualcosa. Ma diversamente dall'operazione dadaista, che prende gli oggetti trovati per farli diventare celebri e irridere al mondo della razionalità industriale, criticando esasperatamente il sistema,
Pasotti invece ci gioca, come se fossero forme astratte della memoria di ciascuno di noi che, una volta privata dell'uso e dotate dell'uso estetico, ci sono familiari e simpatiche. Pasotti è senza dubbio debitore dei poppartisti, diciamo i Rauschenberg o i Dine o i Wesselmann degli oggetti industriali rifatti o i Segal della pianificazione o gessazione delle macchine. Ma anche qui con una differenza: non si tratta di una ripetizione della civiltà industriale allo scopo di reinventare i materiali artistici secondo lo spirito dell'epoca. Pasotti è "affettuoso", gioca con le sue Candy come delle bambole di cui fantastica i nuovi vestiti, le nuove ambientazioni, i nuovi mondi possibili di cui esse sono le creature. Una lavatrice la vediamo accendersi e spegnersi dotata di neon e luminarie come in un casinò di Las Vegas. Un'altra la vediamo colorarsi di rosso (così come altre di verde, giallo, nero) anticipando la tendenza attuale al design colorato tipo-Castelli. Un'altra ancora apre il suo oblò alla visione di un paesaggio fantastico, così come facevano (mi pare più o meno nella stessa epoca) i tunnel autostradali dello stesso artista. Sempre la lavatrice rossa è sovrastata di materiale plastico informe e nero, che cola immobilmente sui fianchi dell'impenetrabile cubo: opposizione della forma formata e dell'informe posteriore esteriore. Pasotti ama le sue lavatrici. Forse, nei suoi sogni, c'è stato anche il desiderio di reinventare la lavatrice, di esserne il creatore. Così la cita, la mette fra virgolette, ne giunge al cuore attraverso la resa della trasparenza dell'involucro esterno. Così, se certamente possiamo riconoscere come in qualsiasi artista le influenze del gusto dell'epoca e della sua cultura, altrettanto certamente possiamo avvertire alcuni antipici, come quel piacere metatestuale del rinvio e della citazione che oggi viene definito come in una delle caratteristiche della cosidetta post-modernità. L'aggettivo, fra l'altro, bisogna dire che è assai calzante nel caso in esame. Almeno se prendiamo "postmoderno" nel suo senso non solo artistico-progettuale, ma anche in quello filosofico. Secondo
Lyotard, uno dei pensatori che hanno inventato il termine "post-moderno" significa infatti "oltre l'industriale". E Pasotti lo prende alla lettera: va oltre la lavatrice, la rende, mi si perdoni la battuta, "post-lavabile". E recupera – sempre secondo il più puro dettato lyotardiano – all'interno dello spazio della produzione, quegli interstizi di giudizio critico ed estetico che il filosofo francese ha definito l'essenza dell'"economia libidinale". Spazi estetici erranti, che mettono in crisi per il semplice renderli evidenti, gli spazi spesso aridi della pura razionalità applicata. Le lavatrici di sogno di Pasotti possono così permettersi non più, l'esibizione della loro funzionalità, ma quasi esserne liberate: addirittura "farsi belle".
Omar Calabrese, 1983